A luglio del 2018 sono partita per un mese in Egitto, per fare un’esperienza di missione in un oratorio salesiano. È stata un’esperienza unica e fondamentale per il mio percorso di crescita personale e spirituale.
È quasi impossibile riuscire a sintetizzare tutto quello che ho vissuto e imparato in quel periodo, ma tra le lezioni più importanti ci sono sicuramente queste: essere se stessi, capire cosa significa accoglienza e voler bene nel profondo.
Nella nostra vita è raro trovare qualcuno che sia sincero e genuino, perché siamo abituati a nasconderci dietro tante cose, al punto da dimenticarci come essere sinceri con gli altri. Ci nascondiamo dietro I vestiti, le macchine, il trucco; tutte sovrastrutture che ci allontanano da noi stessi e, quindi, anche dagli altri. Quando invece vieni catapultato in un contesto in cui indossi gli stessi vestiti per un mese, non ti trucchi, non hai nessun elemento oltre a te stesso con cui rapportarti con gli altri, non puoi fare altro che essere sincero, non puoi nasconderti, devi mostrarti nella tua verità.
Tutto ciò ti permette di scoprirti e conoscerti davvero e, di conseguenza, di creare relazioni profonde e sincere.
L’accoglienza, poi, è qualcosa che è difficile capire davvero se non lo si vive sulla propria pelle. Quando sei una ragazza, cristiana, occidentale, in un paese musulmano, con una cultura molto diversa da quella a cui sei abituata, ti senti straniera; non è la stessa sensazione di quando si fa un viaggio da turista perché noi siamo entrati nelle loro case e nelle loro vite. Tutte le persone che abbiamo incontrato avrebbero potuto essere scostanti o guardarci con sospetto, invece ci hanno mostrato fin dal primo secondo quanto fossero persone di cuore. Dopo nemmeno un giorno ci invitavano a casa loro, ci trattavano come fossimo amici da sempre, eravamo diventati parte delle loro vite.
Un’animatrice del posto una volta mi ha detto “Non capisco che problema hanno le persone; se vedo qualcuno in difficoltà lo aiuto e basta, non gli chiedo qual è la sua religione, non guardo il colore della pelle, non mi importa se è egiziano o no, lo aiuto perché mi basta vedere che è un essere umano, una persona come me.”
I primi tre giorni ricordo che entrai in crisi, perché mi sentivo in difficoltà; passavo le giornate a giocare con I bambini e tutti mi trattavano come se stessi regalando oro. Il loro affetto era disarmante e io sentivo che non stavo facendo abbastanza. Non riuscivo a capire che il voler bene si dimostra più con lo stare che con il fare.
Loro hanno iniziato a volerci bene prima di conoscerci, solo perché avevamo deciso di andare lì per un mese; noi ci facciamo troppi problemi, ci nascondiamo dietro troppi ragionamenti quando si tratta di voler bene. Il tempo che ho passato in Egitto mi ha mostrato chiaramente che se eliminiamo tutto ciò che è superfluo restano le cose importanti, le persone e le relazioni.
È questo il punto della missione. In un mese ho conosciuto egiziani, sudanesi, siriani e l’Egitto di Mirna, il Sudan di Clemens o la Siria di Dani non saranno mai quello che posso sentire in tv o quello che dicono le persone schiave dei luoghi comuni. Tanti problemi del nostro mondo sono frutto proprio dell’ignoranza, perché si giudicano e spesso si combattono cose che, in realtà, non si conoscono.
Questa esperienza non si fa per cambiare il mondo o per salvarlo, come molti pensano. Si va in missione per conoscere altre persone, altre culture, per riuscire ad amare ciò che ci sembra lontanissimo e troppo diverso da noi per meritare affetto; una volta fatto questo, allora, forse, potremo anche salvarlo il mondo.
Milena D’Acunzio
L’estate di quattro anni fa, ho deciso di vivere un’esperienza di un mese nell’oratorio salesiano di Soddo in Etiopia. Una scelta arrivata in silenzio, in punta di piedi. Avevo il desiderio di partire, ma non pensavo fosse il momento… Inizio la “scuola di mondialità”, un percorso che ha come proposta pratica un’esperienza missionaria di un mese. Tra tante domande, incertezze, paure e preghiera… dico “si”.
Quel “Sì, eccomi” confermato in presenza delle persone a me più care e da giovani con cui condividevo un cammino. Nel giorno del mandato missionario, ho compreso che veramente avevo deciso e che stavo per partire e che quelle paure che mi bloccavano erano sparite. Mi sentivo accompagnata e guidata, in pace con quello che tra pochi mesi avrei vissuto, con la consapevolezza di non essere sola e di essere strumento a servizio del Suo amore.
La nostra destinazione? Un mese nell’oratorio salesiano a Soddo in Etiopia. Esperienza vissuta in comunità, un gruppo molto variegato ma con un filo comune… mettersi a servizio del prossimo e mettersi in gioco. Si pensa che uno parte per voler “salvare il prossimo”. La prima cosa che ho capito, durante la preparazione (durata un anno), è che “non si va lì per fare l’eroe della situazione”. Vai lì e quello aiutato ti ritrovi ad essere proprio tu. Sono le persone, i ragazzi, i bambini che incontri lì che aiutano te. Cambi punto di vista, da una posizione centrale ti ritrovi parte di un insieme. Porsi a fianco dei ragazzini che ogni giorno venivano all’oratorio; porre al centro Dio, l’amore gratuito che Lui ha per noi e provare a restituire questo amore ai più piccoli, che gioiscono per il semplice fatto che tu stai lì per loro. “Stare”, non basta altro. Erano contenti che stavamo con loro. Giocavamo ad un, due, tre stella per ore; ballavamo e cantavamo lo stesso bans centinaia di volte; correvamo per tutto l’oratorio rincorrendo i sorrisi di altri bambini che venivano coinvolti in queste corse improvvisate e buffe.
Allo STARE si aggiunge la SEMPLICITÀ. La semplicità di un sorriso, di un dono, di un pianto, di un abbraccio. La semplicità dell’amore di un padre per i suoi figli, la cura di una madre per i figli malati. Quell’Amore che deriva dalla Parola, fatta concretezza nei salesiani che si commuovevano quando riuscivano a dare la merenda o un abito pulito ai loro fanciulli; la forza e la dolcezza delle Missionarie della Carità di Madre Teresa di Calcutta quando curavano i malati. La semplicità, la purezza dei bambini dell’oratorio che volevano condividere ogni cosa con noi: i loro giochi, i luoghi in cui giocano, farci conoscere le loro famiglie. Quel desiderio di condivisione che viene quando ami gratuitamente come un bambino. Un amore che all’inizio ti da’ pure un po’ di fastidio e ti rendi conto che la nostra società non è più abituata alla gratuità dell’amore. Ci siamo chiusi in delle bolle che ogni giorno diventano sempre più grandi e fredde.
ACCOGLIENZA, AMORE, FRATERNITÀ, CONDIVISIONE, GRATUITÀ E AFFIDAMENTO. Sei parole con cui sintetizzerei la mia esperienza e con cui affrontare la domanda tanto temuta del ritorno. Come mettere a frutto l’esperienza estiva fatta e non farla diventare solo un francobollo sul mio passaporto? Con semplicità (ma non con facilità), ritornare alla quotidianità, riprendere quei sogni che mi stavano aspettando da un mese e vederli con occhi nuovi, attraverso questi sei punti. E fare i conti con quel desiderio, che è rimasto, di ritornare lì, che rende difficile il rientro a casa. La scelta di mettere quel desiderio da parte e affidarlo… con il tempo ha preso una forma, si è legata ai miei sogni, alle mie passioni e al mio quotidiano.
Valentina Calabrese